Lo storico splashdown di Orion conclude la prima missione Artemis!
La navicella Orion è ammarata alle ore 18.40 al largo delle coste della Baja California terminando con successo la missione Aremis 1
Dopo due milioni di km percorsi e quasi 26 giorni trascorsi nello spazio, due sorvoli ravvicinati della Luna, centinaia di foto scattate e una quantità enorme di dati raccolti, la navicella Orion è rientrata sulla Terra ammarando nell’oceano Pacifico al largo delle coste della Baja California alle ore 18.40 dell’11 Dicembre. A 50 anni esatti, tra l’altro, dall’ultimo sbarco dell’uomo sulla Luna. Si conclude, così, la missione Artemis 1, la prima storica missione del progetto Artemis che prevde il ritorno dell’essere umano sulla Luna nel 2026.
Lo storico splashdown
Il ritorno a terra della capsula Orion era indubbiamente uno dei momenti più attesi nonchè fondamentali dell’intera missione Artemis 1. Dal rientro atmosferico con una manovra mai tentata prima per una navicella in grado di ospitare umani allo scudo termico mai testato in queste condizioni, le incognite in gioco erano moltissime. Un momento da non sbagliare, perchè fallire il rientro a terra implica il fallimento dell’intera missione. Altissima tensione, ripagata però da quello che finora sembra essere un successo clamoroso. Accompagnato da immagini destinate a rimanere storiche.
Il ritorno di Orion verso il nostro pianeta è cominciato il 4 dicembre quando la navicella è ripartita dall’orbita lunare dopo aver effettuato il secondo sorvolo della superficie della Luna. Un viaggio di rientro durato circa una settimana, in cui la Luna ha cominciato a essere sempre più piccola nelle foto scattate dalla capsula e il nostro pianeta sempre più grande. Le fasi cruciali dello splashdown sono cominciate attorno alle 18 ora italiana con la separazione del modulo di servizio europeo e si sono concluse alle 18.40, in perfetto orario sulle previsioni della NASA. Non un secondo di più, e non un metro di più rispetto al luogo di ammaraggio prefissato. Incredibile, no?
Subito dopo lo splashdown si sono attivate le procedure di recupero da parte di NASA e U.S Navy, accertando la stabilità della capsula sulla superficie del mare, assicurando che non fossero presenti perdite di gas tossici o propellente e che tutto fosse assolutamente nominale. Anche questa fase è importante perchè serve per testare tutte le procedure di recupero in sicurezza della navicella che verranno messe in atto quando poi vi saranno astronauti a bordo.
La manovra di rientro e le fasi dell’ammaraggio
La Orion è rientrata sulla Terra eseguendo una manovra insolita per una navicella in grado di ospitare umani: la Lunar Return Skip Entry.
È qualcosa di molto particolare e consiste nell’entrare in atmosfera e “rimbalzare” nuovamente verso l’orbita prima di rientrare una seconda volta in atmosfera verso l’atterraggio in oceano pacifico. Questa particolare manovra consente diversi vantaggi, tra i quali:
1. Estendere la distanza tra il punto del primo ingresso in atmosfera (quello del rimbalzo) e il punto in cui avverrà lo splashdown. Al contrario di quanto avveniva con le missioni Apollo, il rientro è quindi controllato e non balistico e permette teoricamente di ammarare in una zona predefinita dell’oceano controllando molto meglio il punto dello splashdown.
2. La decelerazione non avviene in una sola fase ma viene suddivisa in due istanti perdendo parte della propria energia durante il primo “rimbalzo”. Questo sottopone a uno stress minore sia la capsula che l’equipaggio che dovrà sopportare quindi una decelerazione minore.
3. Questo si traduce anche in uno stress minore sullo scudo termico che sarà soggetto a temperature minori rispetto a un rientro diretto.
Prima del primo rimbalzo, attorno alle 18 italiane, la Orion si è liberata dell’European Service Module, il modulo di servizio dell’ESA a cui sono agganciati i pannelli solari e che fornisce la propulsione e i supporti vitali. Il rientro in atmosfera è avvenuto a 40.000 km orari e ha rallentato fino a qualche centinaio di km orari “grazie” all’atmosfera. In corrispondenza delle due differenti “entrate” in atmosfera si sono avuti due interruzioni nelle comunicazioni di circa 4 minuti a causa del plasma incandescente fino a 2800°C che ha avvolto la navicella, generatosi dalla frizione tra l’atmosfera stessa e la capsula. Infine un sistema di 11 paracadute che si sono aperti in momenti diversi ha rallentato poi poi la capsula fino ai 32 km orari circa con cui è ammarata al largo delle coste della Baja California.
Lo scudo termico
40.000 km orari, quasi 3.000°C: se pensate che questi dati si riferiscono a ciò che dovranno sopportare gli astronauti delle future missioni Artemis al rientro in atmosfera, capite perché ciò che è accaduto oggi è stato forse il momento più importante dell’intera missione Artemis 1.
L’ultimo test fondamentale, quello dello scudo termico di Orion. Proprio ciò che dovrà proteggere i futuri astronauti durante le delicatissime fasi del rientro in atmosfera che avverrà appunto a 40.000 km orari. A tali velocità la frizione tra capsula e atmosfera genererà temperature di quasi 2.800°C!
Lo scudo termico di Orion si basa su un design consolidato, quello delle missioni Apollo: il successo delle missioni spaziali, infatti, si basa spesso sul migliorare tecnologie già testate più che sul costruire continuamente roba nuova. Il materiale è il medesimo, uno strato di massimo una decina di centimetri di Avcoat, una resina epossidica in matrice in fibra di vetro. Si tratta di uno strato ablativo, il che significa che brucia in modo controllato durante il rientro, trasferendo il calore lontano dal veicolo spaziale. È stato utilizzato anche un secondo materiale ablatore in alcuni punti di Orion. Inventato da Ames, il sistema di protezione termica ablativa multifunzionale tridimensionale (3DMAT) è costituito da fili intrecciati di quarzo in resina. È più resistente di Avcoat ed è stato utilizzato per rafforzare alcuni punti di connessione tra varie componenti della capsula.
Il test dello scudo termico è cruciale perché è un “single point of failure“. Se fallisce il suo compito, fallisce la missione. E mette in pericolo la vita degli astronauti. Ecco perchè il rientro atmosferico di Artemis 1 deciderà, sostanzialmente, il futuro delle missioni Artemis.
Cosa accadrà ora?
Un respiro profondo, prima di tutto: sono stati giorni, mesi, anni carichi di tensione, di ansie, di preoccupazioni e soprattutto di enormi ritardi. Il gigantesco progetto Artemis è complesso, ambizioso, estremamente difficile a partire dalla costruzione dello Space Launch System, l’enorme razzo che ha lanciato la capsula Orion. I dati preliminari ci dicono che Artemis 1 sembra essere stata un successo clamoroso, così grande che sono stati perfino aggiunti ulteriori test scientifici durante il tragitto di Orion. Serviranno mesi per analizzare l’intera mole di dati raccolti, dalla partenza, al tragitto fino all’ammaraggio. Dati fondamentali per pianificare le prossime missioni con astronauti a bordo, a partire da Artemis 2 che ottimisticamente potrebbe essere lanciata entro un paio di anni e che riporterà degli esseri umani in orbita attorno alla Luna, in attesa dello sbarco vero e proprio che dovrebbe avvenire con la terza missione Artemis nel 2026. Non sappiamo se queste date verranno rispettate, molto dipenderà proprio dai risultati scientifici ottenuti analizzando tutto ciò che Artemis 1 ci ha inviato in questi 26 giorni indimenticabili, storici ed esaltanti.
Matteo