L’allevamento incide sul riscaldamento globale?
È una delle questioni più ricorrenti sul tema: quanto incide davvero l’allevamento sul riscaldamento globale antropogenico? Una domanda che compare spessissimo nelle discussioni sull’argomento, ed ecco quindi che vi proponiamo questo articolo, aggiornato alle conoscenze odierne.
Per rispondere ci siamo rivolti a Dario Caro, chimico ambientale, professore associato alla Aarhus University (Dipartimento di Scienze Ambientali) e docente all’Università degli Studi di Siena (Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente).
Qual è l’impatto degli allevamenti sul clima?
Nel 2013, la FAO (Food and Agriculture Organization, l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura) ha stimato che la produzione di bestiame e tutte le attività associate (la cosiddetta Zootecnia) rappresentava il 14,5% delle emissioni globali di gas serra[1]. Questa rimane oggi la stima più citata della cosiddetta “impronta di carbonio” dell’allevamento di bestiame, anche se è piuttosto datata visto che è basata su dati del 2004 e del 2005, cioè vecchi di oltre 20 anni.
Questo valore è difficile da stimare ed è caratterizzato da una naturale incertezza. Nel 2023 la FAO ha pubblicato una nuova stima più bassa, secondo cui il bestiame produce l’11% delle emissioni globali di gas serra[2], mentre altri lavori scientifici hanno indicato una percentuale superiore, fino al 19,6%[3].
Si può dunque concludere che a livello globale gli allevamenti causano il 15% (±4%) delle emissioni di gas serra globali, in linea con la stima del 2013. Queste emissioni sono circa le stesse del settore trasporti. Dunque la risposta è: sì, l’allevamento contribuisce significativamente al riscaldamento globale.
Qual è il contributo degli allevamenti alle emissioni di gas serra?
Come in molti altri settori, gli allevamenti contribuiscono attraverso numerose fonti di emissione.
La più importante è la fermentazione enterica, cioè il regolare processo digestivo dei ruminanti come bovini e ovini che produce metano, un importante gas serra [ndr: e questo porta alle ridanciane e sarcastiche battute negazioniste sulle flatulenze delle mucche]. Anche la gestione del letame genera emissioni di metano, tipicamente più elevate quando viene immagazzinato in sistemi liquidi.
Poi va considerata la produzione dei mangimi. Un’importante fonte di emissioni è il cambiamento nell’uso del suolo: l’espansione dei pascoli per gli animali e dei terreni coltivati per il foraggio comporta la conversione di foreste, praterie e altri terreni, e questo libera in atmosfera ingenti depositi di anidride carbonica che si trovano nella biomassa e nel suolo. Non bisogna dimenticare la produzione di fertilizzanti, l’esecuzione delle pratiche agricole vere e proprie (agricoltura meccanizzata eccetera) e infine la lavorazione e il trasporto.
Infine, tutto questo richiede energia: non solo la filiera agricola, ma anche quella successiva dell’allevamento vero e proprio: dalla ventilazione al raffreddamento e altre attività come la macellazione del bestiame e il confezionamento della carne. Le variazioni delle stime delle emissioni a livello globale dipendono proprio da quante fonti vengono incluse o meno nel conteggio totale.
Le emissioni da allevamenti stanno aumentando?
Anche se l’ultima stima della FAO sulle emissioni globali del bestiame è inferiore a quelle precedenti, la FAO stessa avverte che, a causa delle differenze metodologiche, tali stime non sono paragonabili. Andando a interrogare i database della FAO, (ndr: facendo quindi un’analisi comparativa sistematica di tutti i dati a disposizione) diventa chiaro che le emissioni associate alla produzione di bestiame sono in aumento. Per esempio, dal 1990 al 2021, le emissioni sono aumentate circa del 17%[4].
Queste emissioni continueranno ad aumentare, perché la popolazione globale continua a crescere (si prevede il raggiungimento dei 10 miliardi intorno alla metà del secolo) e le diete passeranno ad incorporare più carne, con l’aumento del benessere. Si stima infatti che il consumo di carne di ruminanti (come i bovini) aumenterà di circa il 90% entro il 2050.
Se le attuali tendenze di domanda e produzione continuassero, le emissioni provenienti dal solo allevamento spingeranno il riscaldamento globale oltre 1,5 °C, e questo anche se tutte le altre fonti di emissioni fossero immediatamente eliminate[5].
La popolazione dovrebbe ridurre il consumo di carne per diminuire le emissioni di gas serra?
In generale sì: tutti gli studi sono concordi su questo. I prodotti di allevamento (carne e derivati) sono al di là di ogni dubbio i cibi che contribuiscono maggiormente alle emissioni di gas serra e al riscaldamento globale.
Va fatta una premessa però; la dieta non è ovunque la stessa e dipende dalle culture nazionali. Negli USA si può arrivare a mangiare carne in tre pasti differenti dello stesso giorno, mentre la dieta mediterranea è molto più variegata e prevede un consumo di carne più moderato. Per molte realtà, avere una dieta più “mediterranea” rappresenterebbe un modo per ridurre l’impatto.
Oggigiorno, anche e soprattutto a causa dell’avvento dei social network, viviamo in un sistema che capitalizza sulla rabbia dell’essere umano. È quindi molto difficile far capire che possano esistere delle vie di mezzo. C’è lo schieramento dei vegetariani (o vegani) che si contrappone nettamente a quello dei carnivori, in un sistema che ha tutto l’interesse di polarizzare queste due posizioni così nette.
Il consumatore, invece, può avere un effetto positivo anche solo riducendo il consumo di carne. Questo non significa nella maniera più assoluta che dobbiamo diventare tutti vegani o vegetariani. Per esempio, basta imporsi di mangiare carne, soprattutto rossa, solo in occasioni particolari.
Aggiungiamo noi un’ulteriore considerazione alle parole del Prof. Caro: anche la scienza nutrizionista è d’accordo con tale proposizione, e in maniera del tutto indipendente dall’impatto ambientale dell’allevamento. In una dieta equilibrata, la carne rossa va consumata con moderazione, specialmente quella lavorata. Anche se l’inserimento di tale alimento tra le categorie di cibi potenzialmente cangerogeni è ancora una questione dibattuta tra gli esperti[7], ciò non toglie che gli altri effetti benefici derivati da una sua riduzione sono chiari e ampiamente riconosciuti.
Si parla molto della carne sintetica come possibile strumento per ridurre l’impatto da consumo di carne tradizionale, che ne pensa?
Quando parliamo di carne sintetica ci stiamo muovendo su un tema multidisciplinare. Il contributo del mio settore di ricerca è quello di stabilire se e quanto, la sostituzione della carne tradizionale con quella sintetica ridurrebbe l’impatto ambientale.
Un nostro recente studio ha mostrato che la sostituzione di carne tradizionale con carne sintetica all’interno di una dieta nordica, caratterizzata tradizionalmente da un elevato consumo di carne, ridurrebbe di circa il 21% le emissioni nazionali danesi[6]. Un contributo rilevante.
Tuttavia, voglio ribadire che il ruolo del mio particolare settore di ricerca è solo quello di informare sui potenziali effetti ambientali, e questo ovviamente non basta per sancire se la carne sintetica può rappresentare un importante strumento di mitigazione. Ad esempio,questi cibi devono passare per la Novel Food Regulation europea (la procedura per la richiesta di autorizzazione di alimenti “nuovi” rispetto a quelli tradizionalmente intesi) data la loro relativa novità. Pertanto, devono dimostrare di essere sicuri tanto quanto le altre opzioni attualmente disponibili per i consumatori europei.
Nelle stime sono stati calcolate anche quanto le differenti colture sequestrano CO2 dal atmosfera ?
Domanda interessante. Su due piedi risponderei che le colture non sequestrano CO2, perché il ciclo non è aperto. Non ci sono momenti o fasi in cui la biomassa prodotta dalla fotosintesi viene “sequestrata”, cioè intombata per sempre da qualche parte e rimossa dal ciclo del carbonio globale. Finisce per essere tutto consumato in qualche modo. Cioè, per farla breve, la CO2 assorbita dal foraggio viene liberata dalla digestione da parte dell’animale, dalla distruzione degli scarti e infine dalla decomposizione di chi quel foraggio l’ha mangiato (o ha mangiato l’animale). Per sequestrare CO2 i prodotti della coltivazione andrebbero appunto sequestrati, rimossi dal ciclo, sepolti in strati geologici o in fondo all’oceano.
Sento spesso dire (non da scienziati, sia ben chiaro) che gli allevamenti intensivi siano migliori di quelli non intensivi dal punto di vista ambientale per una generica considerazione: ottimizzano l’utilizzo del suolo e delle risorse come acqua e mangimi, a discapito ovviamente della salute degli animali (che non gioca alcun ruolo se parliamo di emissioni di gas serra, credo). Esiste un qualche tipo di studio scientifico al riguardo? Effettivamente, anche io sarei portato a pensare che, a parità di quantità di animali, sia meglio raggrupparli nel minor spazio possibile in modo tale da ridurre lo spreco di acqua e lo sfruttamento di suolo.
Grazie!